Come si fa il vino

Viviamo, spesso senza rendercene conto, in un paese davvero speciale; la sua posizione come latitudine e in particolar modo nel Mediterraneo ne fa (o dovremmo forse dire: ne ha fatto, visto la tropicalizzazione in atto, i cui esiti sono ancora lungi dall’essere chiari e prevedibili) un territorio a clima particolarmente temperato ed idoneo ad una proficua coltivazione della vite.
Tuttavia per quanto il clima italiano sia fra i più adatti alla viticoltura, bisogna ricordare che la differente morfologia del terreno fa sì che da area ad area vi siano diversissime caratteristiche di produzione. Ecco perché è così importante
per i viticoltori scegliere il vitigno più idoneo al terreno in cui esso va impiantato e coltivato. Ed ecco perché a tutt’oggi possiamo notare che i vini italiani hanno una prerogativa regionale e di area spiccatissima, da cui nasce una tipicità estrema e, spesso, un perfetto abbinamento con la cucina regionale di corrispondenza. Gli elementi climatici fondamentali per la crescita e la produttività della vite sono la luce, il calore, l’esposizione e la giusta quantità di umidità nell’ambiente (derivante da pioggia, neve, nebbia e rugiada). Occorre ricordare
che i vitigni ed il loro prodotto naturalmente vengono anche influenzati dalle caratteristiche chimiche del terreno in cui sono stati impiantati.
È italiana, e si deve ad Adamo Fabroni, nel 1787, l’enunciazione compiuta della teoria fisica della fermentazione vinosa,che ha aperto la strada alle scoperte del XIX secolo nel campo delle
fermentazioni.
Il primo atto necessario per la produzione di un vino, dando per scontata una felice vendemmia di bei grappoli maturi, sta nella pigiatura degli stessi, per far fuoriuscire dagli acini la polpa ed il liquido in essa contenuti. Anticamente, si sa, la pigiatura veniva eseguita con i piedi; oggi viene effettuata mediante macchine appositamente progettate, in grado addirittura di separare prima il raspo dagli acini e di graduare la pressione in modo da ottenere spremiture adeguatamente “dolci”. L’acino, la cui polpa è sempre incolore (è la buccia ad essere rossa o bianca), si compone di vari elementi: i semi e la buccia, i residui del graspo e la polpa.Tannini e polifenoli in genere, essenziali (ma anche in alcuni casi improvvidi) per la vita del vino sono contenuti nelle parti solide, essenzialmente nella buccia.
Aromi e zuccheri sono disciolti nel succo della polpa.
È “giocando” con l’utilizzo totale o parziale di tutti questi elementi che si elaborano i vari tipi di vino.
Dopo la vendemmia, dunque, il chicco d’uva viene pigiato (pigiatura o follatura) e privato dal graspo. L’uva viene messa in tini (di acciaio o legno, o un mix dei due) e la fermentazione comincia. Si rende poi necessario procedere ad un’aerazione frequente del luogo e mettere, nel caso dei futuri vini rossi,
il succo d’uva (mosto) a contatto con l’insieme delle parti solide, che si concentrano alla superficie del tino fino a formare una patina (cappello) che si immerge nel mosto. Questa mescolanza dell’insieme degli elementi dell’uva (macerazione) conferirà al futuro vino le sue caratteristiche specifiche: colore e struttura. Quando lo zucchero dell’uva è completamente trasformato dai lieviti, la fermentazione si ferma. Si può, a seconda del vino desiderato, continuare la macerazione o fermarla, separando per scarico o pompaggio i due elementi; il vino che scola sarà chiamato “vino di goccia”, quello che si otterrà per pigiatura della patina sarà il “vino di pigiatura” che, benché fratello del precedente, sarà diverso, poiché la vicinanza delle sue materie solide lo renderà più scuro nel colore, più corposo nella materia e di gusto più pronunciato.
A seconda del tipo di vino voluto e delle caratteristiche dell’annata, questi due vini saranno più o meno mescolati. Dopo le operazioni di cura essenziali, e “invecchiamento”, imbottigliato e commercializzato.
Oltre a quest metodo tradizionale si usa però in alcuni casi anche la macerazione carbonica, che avviene con uva intera, non pigiata, in tini chiusi, saturi di anidride carbonica. Questo metodo produce vini leggeri e gustosi, dal gusto molto simile al chicco d’uva. Questo procedimento rende al meglio solo con i vini novelli. La vinificazione in bianco prevede invece la separazione immediata, o comunque precoce, del mosto dalle vinacce( raspi, bucce, semi) per ottenere una fermentazione senza le parti “in solido” dell’uva. E’ molto importante in questa fase di transizione del mosto in vino, controllare costantemente la temperatura di fermentazione, affinchè non superi, per i bianchi, i 16-18°. Per i rosati, ricordiamo che la legislazione italiana, vieta di ricavarli dal taglio dei vini bianchi con vini rossi. La loro vinificazione è identica ai vini rossi ma la macerazione è più breve per permettere uno scambio limitato di tannini e di pigmenti. Le loro caratteristiche gustative sono simili a quelle dei vini bianchi ma la loro composizione chimica li rende più simili ai vini rossi.
A eccezione dello Champagne, è vietato elaborare vini rosè per mescolanza di vini rossi e bianchi.
Durante le delicate procedure di vinificazione, specie per i rossi, sono molte le tecniche di cantina utilizzate. Una frequente è il rimontaggio, riportando il liquido in alto nel tino di fermentazione, oltre il cappello delle bucce, per farlo poi defl uire. Attraverso la conseguente ossigenazione del mosto, il rimontaggio rinvigorisce i lieviti e li ridistribuisce nella vasca di fermentazione.
E insieme si ridistribuiscono anche le sostanze coloranti contenute in antociani e tannini. Le moderne vasche di fermentazione permettono di ripetere automaticamente il rimontaggio, la cui durata e numero dipendono essenzialmente
dalle condizioni climatiche. In climi freddi è necessario procedere a rimontaggi frequenti, ma nei climi caldi dell’Europa del sud il rimontaggio, se praticato senza attenzione, può aumentare eccessivamente l’attività dei lieviti e accorciare il periodo di fermentazione, riducendo in questo modo il livello alcolico del vino. Tecnica analoga è quella di “affondare” invece il cappello, facendolo poi risalire lentamente attraverso il liquido.
Alla prima fermentazione, per i vini destinati ad affi namento e invecchiamento, bianchi o rossi che siano (ma sempre ambiziosi e di struttura) segue la fermentazione malolattica, un processo naturale, dovuto all’azione di specifici batteri, che trasforma l’acido malico (dal sapore molto pronunciato) in acido lattico, decisamente meno aggressivo. La malolattica si innesta in alcuni casi subito dopo l’alcolica, a volte in primavera o all’inizio del l’estate successiva alla vendemmia.
Viene generalmente svolta in legno per quei vini destinati ad essere affinati in barrique. Per alcuni bianchi di struttura, anche la fermentazione alcolica viene svolta in legno, sulle fecce dei lieviti, mosse e rimescolate ciclicamente all’interno della botte (solitamente una barrique) con una tecnica detta batonage.
Con la fermentazione malolattica il vino comincia a cambiare le sue caratteristiche organolettiche: il colore evolve verso tonalità meno vive, i profumi acquisiscono nuove sfumature, il sapore acquista in rotondità e pienezza.
Procedure speciali si applicano, infine, per ottenere vini speciali: dai liquorosi, in cui si aggiunge alcol o misture alcoliche in fermentazione per bloccare i lieviti e “salvare” parte degli zuccheri, agli spumanti a metodo classico, con rifermentazione in bottiglia dei vini base, grazie ad aggiunta di lieviti e zucchero per “nutrirli”, o quelli a metodo Charmat o Martinotti, dove l’operazione è assai più breve, e avviene in autoclave.
A questa fase, segue quella, di lunghezza variabilissima, dell’affinamento. In acciaio e poi in bottiglia, brevemente, per i vini di pronta beva e tendenzialmente “freschi”. In legno di varia grandezza, e oggi soprattutto in barrique, e poi più o meno lungamente in vetro, per i vini più ambiziosi. Da ricordare,prima di analizzare il fenomeno barrique come figlio di un’esigenza meditata degli enologi, ma anche di una moda, a volte improvvida per il tipo di uva e di vino “condannati” al trattamento, che il binomio vino-legno esiste da millenni. Anzi, in un passato lontano, oltre agli orci di terracotta, il legno era l’unico contenitore per il vino. Solo da pochi decenni i contenitori in acciaio hanno temporaneamente sostituito le botti. Mentre in una fase intermedia hanno svolto un ruolo di “elevatori” anche vasche di cemento vetrificato, ai giorni nostri prima aborrite e oggi da alcuni rivalutate, sulla scorta di alcuni dubbi subentrati sugli effetti ionizzanti dell’acciaio su alcune componenti del vino.
A trionfare però al momento è certamente ancora la barrique, il contenitore in rovere pregiato e tostato al suo interno da 225 litri circa, considerato ottimale sia per la microossigenazione che attraverso i pori provoca al vino, sia per il suo rapporto di
scambio con il liquido contenuto.
La barrique è doppiamente attiva, perché oltre ad ossigenare lentamente, cede al vino elementi (tannini ed aromi) che vanno a integrarne, ma in certi casi anche a stravolgerne, il quadro complessivo e l’identikit.
Di certo, a vini già importanti la barrique può conferire ancora maggior struttura e durata nel tempo. Ma un vino affinato in legno acquisisce anche nuances aromatiche piacevoli se ben dosate, fastidiose se “coprenti” rispetto a quelle del vino stesso e del vitigno d’origine, e ancor più se “omologanti”, rendendo uguali o quasi vini in partenza destinati ad essere ben diversi.
La “mitica” barrique, di tradizione francese, solitamente viene costruita utilizzando legno di rovere di Allier, Limousin, Tronçais, Nevers, Vosges, del Massiccio Centrale Francese e, più di recente, rovere delle Rocky Mountains e anche legno proveniente dalla Russia e dall’Est in generale. Rispetto a una botte grande, nella barrique la superficie del vino a contatto con il legno è
maggiore e risulterà di conseguenza maggiore anche lo scambio di sostanze con il legno. Il rapporto fisico-chimico tra una grande botte e una piccola botte è di circa 3 a 1; ciò significa che sono necessari 3 anni di botte grande per avere il bouquet di 1 anno di barrique. Questo non vuol dire, però, automaticamente che la botte piccola sia da preferire alla botte grande. Sta alla sapienza del cantiniere, in base alle uve a disposizione e alla loro destinazione enologica, “dosare” il legno, scegliendone la pezzatura, la tipologia e il tempo di affinamento. Tocca al produttore o al suo enologo scegliere la botte e la barrique giuste anche in base alla loro permeabilità all’ossigeno e alla tostatura interna. Quest’ultima nasce per poter effettuare la piegatura delle doghe, che si fa a caldo. Ma segue poi una esposizione al fuoco delle botti, che è la fase che conferisce loro le maggiori differenze aromatiche. Una tostatura leggera prevede circa 5 minuti di esposizione al fuoco, quella media circa 10 minuti, quella forte intorno ai 15-20 minuti. È questa operazione che amplificherà nel vino certi aromi (fumé, caffè, tabacco, eccetera) che contraddistinguono alcuni vini importanti.
Ma attenzione: produttori con diversa impostazione ottengono (più avanti nel tempo, certo) profumi analoghi, pur se non identici, che vanno a mescolarsi al fruttato del vino e dell’uva di origine, anche usando botti di grande dimensione e non necessariamente nuove.
…..(Continua)

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