La storia nel piatto – Il ginepro

Il ginepro lo troviamo già presso i Romani, e Marco Gavio Apicio, un ricco patrizio, maestro d’arti culinarie, celebre nei primi decenni del I° sec. d.C. nella Roma imperiale di Tiberio, lo elenca fra le spezie essenziali per un cuoco in quanto era considerato anche un sostituto popolare del pepe. Nel medioevo i suoi rametti godettero di buona fama, e alcuni autori sottolineano quanto fosse: “odorifero e buono per la carne allo spiedo, perché lascia dentro di essa il suo sapore”.
Da allora il ginepro è entrato in molte ricette dedicate alla selvaggina, e il suo legno è stato utilizzato nelle cotture allo spiedo o alla griglia perché trasmetteva alle carni un gradevole aroma resinoso. Nelle credenze popolari il ginepro era consigliato, per le sue foglie pungenti, come rimedio contro le streghe, e di questa pianta doveva essere sia il bastone per girare la polenta, che un ramo appeso sopra la porta della casa o della stalla. Con i rami di ginepro, che possiede proprietà toniche, digestive, stimolanti, diuretiche e sudorifere, si alimentava il fuoco quando in casa c’era un malato, arrivando a distribuirne le foglie appena raccolte su piastre incandescenti del camino, in modo che i suoi effluvi aromatici e medicamentosi inondassero la stanza. Il famoso abate Kneipp suggeriva addirittura di avvolgere il malato d’influenza in una coperta che doveva essere riscaldata ai vapori di una pentola in cui bollivano rami e bacche di ginepro. Questo suggerimento è passato alla storia della fitoterapia popolare col nome di mantello del dottor Kneipp.
Come condimento e aromatizzante il ginepro è oggi molto apprezzato in gastronomia: le sue coccole servono nelle marinate, nei ripieni, nelle zuppe, nelle marmellate. Inoltre le sue spiccate caratteristiche aromatiche lo rendono indispensabile in liquoristica, basti pensare al gin e alle grappe.
Curiosità:
Marco Gavio Apicio, dopo aver speso per la cucina cento milioni di sesterzi, dopo aver dilapidato in gozzoviglie tanti regali dell’imperatore Tiberio, arrivò un momento in cui fu costretto a fare il bilancio dei suoi averi. Dai conteggi risultò che non gli erano rimasti che dieci milioni di sesterzi. E così, come se con il suo patrimonio residuo, si vedesse costretto a vivere nelle fame più nera, decise di porre fine alla propria vita con il veleno.