VPocket e i “nobili pasticci”

Questo mese su VPocket parlo di Pasticci…ma quelli NOBILI!!!

Giulio Cesare Croce nel 1620 in un suo racconto scrive un epitaffio sulla tomba del povero contadino Bertoldo morto per aver mangiato cibi non idonei alla sua estrazione sociale: “Chi è uso alle rape non vada ai pasticci”. Perché ai tempi il medico ti prescriveva la dieta non in base alla corporatura e allo stato di salute ma al livello sociale. Dunque le rape ai poveri e il pasticcio ai nobili.

 

All’inizio fu il “pasticium” un involucro di pasta –così dura e dolce che spesso veniva scartata- ripieno degli ingredienti più differenti. Era il Medioevo. Si usava una pasta spesso fatta di farina impastata con acqua. Così, il ripieno di solito era l’unica parte commestibile anche se spesso passava in secondo piano di fronte alle elaborate composizioni della pasta. La denominazione “pasticcio” non stava a significare che gli ingredienti fossero ridotti in pezzi, ma si riferiva al fatto che erano ricoperti con la pasta. Esistevano infatti pasticci nei quali l’animale era presentato intero e non disossato. I gusci erano molto compatti, generalmente immangiabili: il rivestimento infatti serviva prevalentemente da recipiente di cottura e il suo scopo principale era di contenere la farcitura proteggendolo dalle alte temperature dei forni. Si trovavano sulle tavole dei nobili e i cuochi facevano a gara per creare le proposte più originali. Scenografia e sorpresa erano (e sono ancora oggi) una delle caratteristiche di questo piatto che ha avuto grande diffusione anche nel periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento, quando la civiltà romana venne presa come esempio da imitare e di conseguenza anche la sua cucina. E poiché ciò che appariva doveva essere di gran lunga superiore alla sostanza, queste sculture di pasta erano considerate al pari di veri e propri scrigni dai quali poteva uscire di tutto: dagli uccelli in volo al nano di corte. In qualche caso la cottura in crosta si otteneva senza la copertura di pasta, ma semplicemente cospargendo la torta di formaggio che calore del forno rendeva bruna e croccante.

Così, se per qualche minuto avete pensato alla torta salata come a una sfoglia buttata lì con due cose sopra sappiate che in realtà una torta salata è molto di più.

Al contrario si tratta di una preparazione che rappresenta da sempre l’opulenza in infinite varianti e libere interpretazioni, come quando si sono inseriti i maccheroni, tipo di pasta più diffusa al sud. Era la prima volta, si narra, e fu al matrimonio tra Eleonora d’Aragona, figlia di Ferdinando I di Napoli, ed Ercole I d’Este nel 1473. Il risultato? Maccheroni, animelle, burro, parmigiano, tartufi, prosciutto, funghi, rigaglie e creste di polli, noce moscata. Il tutto racchiuso nella pasta frolla. Un piatto complesso anche a detta di Pellegrino Artusi ne “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”: “I cuochi di Romagna sono generalmente molto abili per questo piatto complicatissimo e costoso, ma eccellente se viene fatto a dovere, il che non è tanto facile”. Torte salate, timballi, pasticci che dir si voglia sono preparazioni di cui ti devi fidare. Perché non sempre sai che cosa c’è dentro. Eppure c’è sempre una gran voglia di assaggiarle. L’Italia ha una ricchissima tradizione di torte salate. Qualche esempio? In Emilia Romagna lo scarpasòun, o scarpazzone, l’ Erbazzone Reggiano, torta salata tipica della zona. In Liguria è tradizione preparare la Torta Pasqualina tipica del periodo e della primavera e dei suoi prodotti. In Umbria la pizza di Pasqua, nelle Marche la crescia. E avete mai assaggiato il casatiello napoletano?

 

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